Noi credevamo

L’anteprima di «Noi credevamo», ad Acciaroli, è stata un trionfo, e certo non poteva andare che così: troppi e tutti molto forti erano gli elementi emotivi legati all’evento, a creare una partecipazione davvero corale, accresciuta dal fatto che per tutta la durata del film moltissimi acciarolesi hanno potuto riconoscersi sul grande schermo e vivere il quarto d’ora di celebrità della comparsa, peraltro sullo sfondo di numerose location cilentane familiari all’intera vasta platea.

Va comunque rilevato che inchiodare svariate centinaia di persone davanti a un film, catturarne per tre ore e venti la silenziosa attenzione, commuoverle, impressionarle, renderle accoratamente partecipi di una storia ormai così lontana, negletta e complessa come quella del Risorgimento, non è un risultato semplice da ottenere, neanche quando il regista giochi praticamente «in casa». Anche a chi, come l’autore di questo articolo, non aveva motivi di personale coinvolgimento nella storia del film, «Noi credevamo» è parso innanzitutto un grande film: per la durata, per il rigore, per la probità delle intenzioni, per il coraggio di un progetto che mai, nemmeno per un momento, cede a tentazioni di corriva «spettacolarità» (che peraltro avrebbero avuto bisogno di una produzione di hollywoodiana larghezza), ciò che tuttavia, nella regia di Mario Martone, non limita, e anzi esalta le potenzialità narrative, la sollecitazione di una «trama» che tiene in continua tensione lo spettatore e che a me, per esempio, ha fatto sembrare ancor più incomprensibili le note osservazioni di Gabriele Salvatores sul cinema italiano incapace di raccontare storie che possano suscitare interesse oltre i nostri confini, e per converso ancor più giustificata la piccata replica di Martone nel corso della polemica che ha riempito pagine di giornale a ridosso dei verdetti di Venezia. A proposito dei quali, anzi, dopo la visione di «Noi eravamo» (e in attesa di vedere anche altri film non premiati), risulta ancor più bizzarro il successo di un’opera come il «Somewhere» di Sofia Coppola. Ma ovviamente io non sono un critico cinematografico e qui dovrei parlare d’altro.

Dovrei, innanzitutto, dirvi come la vera chiave, la pista principale da seguire nella lunga narrazione di Martone sia, per me senza alcun dubbio, quel suo mettere l’accento sulle «direzioni interrotte» di cui parlava prima della proiezione, Renato Carpentieri, l’ottimo attore che nel film fa la parte di Carlo Poerio in ceppi nel carcere borbonico di Montefusco. Il riferimento è naturalmente al modo in cui si arrivò all’unità d’Italia, alla realizzazione di un progetto che per molti avrebbe dovuto partire, quasi per impulso naturale, da Napoli, cioè dal più grande e ricco regno pre-unitario, invece che da Torino. Nel film di Martone, che pure si apre sulle atrocità borboniche nel Cilento della rivolta del 1828, e che pure (ovviamente) alla contrapposizione Nord-Sud allega tutta un’altra serie di coppie d’opposti (la monarchia e la repubblica, l’aristocrazia e il popolo, il mezzo del terrore e il fine nobile del riscatto, il settarismo esasperato e un «noi» che potrebbe suonare come la più dolce delle parole), risultano di un’evidenza particolarmente dolorosa altre atrocità commesse a percorso unitario ormai concluso: le esecuzioni sommarie durante la cosiddetta repressione del brigantaggio, per esempio, oppure la fredda determinazione con cui l’esercito regolare italiano apre il fuoco sui garibaldini in Aspromonte, a decretare nel modo più duro una specie di «fine della ricreazione» legata agli ideali risorgimentali.

E il fatto che quei bersaglieri col cappello piumato e gli ampi pantaloni bianchi, fiscali e inflessibili, ottusamente feroci anche a dispetto di ogni promessa d’amnistia, si esprimano di regola in dialetto piemontese, non può che avvalorare la sensazione che su questo punto specifico, e quasi rendendo inevitabile da parte dello spettatore un ricalco di quelle vicende sul teatro dell’odierna dissoluzione dello spirito nazionale, Martone giochi una carta importante, la più pesante, dell’intero film. «Noi credevamo» si articola in quattro «atti» che, secondo le iniziali intenzioni del regista, avrebbero dovuto restare autonomi e irrelati, e che invece si sono poi saldati in una complessa trama di relazioni e rimandi anche grazie all’introduzione, nella base narrativa che deriva con molta libertà dal romanzo eponimo di Anna Banti, di tre personaggi cilentani d’invenzione: gli aristocratici Domenico e Angelo, e il proletario Salvatore, affiliati tutti alla Giovine Italia e in seguito protagonisti di viaggi e avventure da Torino a Parigi e oltre.

Salvatore, in particolare, la cui vicenda è in parte ricalcata su quella reale del cospiratore Antonio Sciandra, è l’umile soldato della rivoluzione che viene incaricato da Giuseppe Mazzini (uno ieratico, visionario Toni Servillo) di procurarsi il pugnale col quale Antonio Gallenga (un Luca Barbareschi assolutamente perfetto nella parte) dovrà uccidere (ma gliene mancherà l’animo) re Carlo Alberto. Stiamo parlando di «fatti» veri, anche se poco noti, della nostra storia. Martone li ha dunque periodizzati in una fase iniziale tra 1828 e 1834, in cui facciamo la conoscenza delle sette e dei tradimenti che vi si consumano, fino al fallimento della spedizione mazziniana in Savoia; una centrale tra 1852 e 1855, dopo la cesura (per Martone terribile e seminale per la storia delle annose contraddizioni italiane) della fine della Repubblica Romana, quando da un lato emerge la delusione per il «tradimento» della Francia, repubblica affossatrice di repubbliche, e avanza il dibattito sulla necessità di perseguire una priorità come quella dell’unificazione, e sia pure sotto la bandiera dei Savoia; una terza fase, 1856-1858, cui baricentro è l’impresa di Felice Orsini, cioè l’attentato (fallito) a Napoleone III.

Nel libro, appena edito da Bompiani che, con altri materiali tra cui le scene tagliate dalla versione finale, offre il testo della sceneggiatura del film, firmata con Giancarlo De Cataldo, Martone riporta una frase di Aleksandr Herzen che l’ha molto colpito e che è riferita all’Italia delle trame patriottiche: «L’Italia ricorda una famiglia, nella quale sia stato da poco commesso un oscuro delitto, si sia abbattuta una terribile disgrazia, siano stati svelati turpi segreti (… ) Tutti vivono in uno stato di irritazione, gli innocenti provano vergogna e sono pronti a una coraggiosa resistenza. Un impotente desiderio di vendetta tormenta tutti, un odio passivo avvelena, svigorisce». Da questo scenario emerge, nel terzo atto, la figura di Francesco Crispi (Luca Zingaretti), già mazziniano, poi garibaldino e infine primo ministro del disastro di Adua: senz’altro il più spettacolare tra i molti trasformisti raccontati nel film.

Il Crispi di Martone è un altro dei misteri gloriosi della storia nazionale: il film si sofferma sulla sua controversa e mai veramente chiarita partecipazione come quarto uomo all’attentato parigino contro Napoleone III (1858). Il film coglie in pieno le grandi — e sempre attuali! — suggestioni narrative legate a questa ipotesi, e tornando poi sull’avventura di Crispi, ce lo mostra nella scena finale, solo sugli scranni di un palazzo Carignano in cui si direbbero già morti i «moribondi» del libro di Petruccelli della Gattina, mentre afferma solennemente che «la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe». Siamo in seguito al quarto e finale atto, intitolato «L’alba della nazione»: un’alba tragica, nel 1862, con un viaggio allucinante per le vecchie province meridionali presidiate militarmente, fino all’Aspromonte dell’utopia garibaldina affogata nel sangue. Non è la prima volta che al cinema viene raccontato il Risorgimento che i libri di storia non raccontano: dal «Bronte» di Florestano Vancini (1972) in poi, è successo diverse volte (e del resto Martone, nel libro, fa riferimento anche ad altri precedenti, da Visconti a Rossellini a Soldati a Blasetti: dal «1860» di quest’ultimo, anzi, dichiara una «involontaria» citazione).

Direi però che nessuno l’aveva fatto con la radicalità con cui Martone si è accinto alla sua opera; una radicalità che non si limita al pur ampio capitolo della questione meridionale, ma che, come ho cercato di dire, arriva a revocare in dubbio un’idea d’Italia che pure sarebbe, nelle parole di Martone, «ipotesi straordinaria nel momento in cui significa unione della complessità, unione culturale». In questo senso, «Noi credevamo» è un film che dovrà essere molto visto e molto discusso: ricco, complesso, pieno di storie e di figure di cui qui vi ho dato un’idea appena pallidissima); un film che traffica a fondo con la nostra storia e la nostra stessa anima di «nazione» anche grazie a una colonna sonora che accanto alle musiche originali di Hubert Westkemper allinea quelle dei monumenti Verdi, Rossini e Bellini. Un film, infine, che non parla solo di Ottocento, e che ce lo fa intuire in modo obliquo anche attraverso alcuni geniali anacronismi en artiste (lo scheletro di una casa abusiva; guardie in costume sulle torrette in cemento e vetri antiproiettile del carcere di Saluzzo, prigione di patrioti un tempo, di brigatisti poi; l’insegna al neon d’un garage su cui si profila la silhouette del «quasi-Crispi» dell’attentato di Parigi, ecc.). Ma il valore contemporaneo di questo film è dato ovviamente anche dal fatto che esso esce in concomitanza con i 150 anni dell’unità d’Italia. Martone: «Il titolo ci dice che il film è il racconto di una sconfitta, e non c’è dubbio che Noi credevamo sia un film tragico. Ma quando dico tragico, intendo anche catartico, vorrei cioè che desse una spinta all’azione. Il punto non è che tutto è finito, il problema è che tutto è da cominciare». È un’affermazione che rivela grandi ambizioni. E che si spera di poter condividere.

Francesco Durante
12 novembre 2010

fonte: http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it

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