Il piatto di Don Raimondo

I Raccontastorie
I Raccontastorie
Un altro splendido racconto di Francesca Carlucci, su una Napoli antica che è ancora tanto presente nelle viscere dei suoi palazzi antichi.

IL PIATTO DI DON RAIMONDO

Era un piatto grande, né fondo né piano, d’un colore di mare basso, trasparente. Con uno stemma al centro, tra la ragnatela sottile d’infinite, microscopiche crepe. Azzurri e ori, righe oblique in un cartiglio sormontato da un elmo medievale …
Obliterato e sbavato come da qualche acido versatovi apposta, per ingiuria. O per nasconderlo.
Si tramandava, nella famiglia di Mimì Minghetti, come “piatto di don Raimondo”.
Una reliquia sopravvissuta a terremoti e tempi di miseria come una caravella tra i marosi: miracolosamente.

Strano era che non lo si mostrasse. Mai era stato collocato nella cristalliera, tra bomboniere e tabacchiere di pretenziosa apparenza, presunti reliquari, superstiti doni di nozze ovvero servizi di cinque bicchieri e di nove tazzine di cui sette senza piattino. E non perché il dispari portasse fortuna!

Tra queste memorie trovava posto persino una specie d’ampolla verdastra in cui s’intravedeva l’ombra d’un piccolo feto umano. Un antenato tramandato ai posteri come un veliero in bottiglia. Non faceva paura, ma suscitava appena un’indefinita pietà.
Mimì era un bambino la cui curiosità era però trattenuta dal rispetto e dall’amore per le cose di famiglia su cui nonna, zie e madre riverberavano affetto e cura.
Ma il piatto di don Raimondo, esiliato in cucina sospeso in un armadietto attaccato al muro con l’anta di retina di ferro e dietro quella una tendina a fiori, lo attraeva irresistibilmente.
Un giorno, poiché era convalescente da una brutta varicella e tutto poteva chiedere e ottenere, aveva domandato di vederlo.
Glielo portarono fin sul letto e lui ci guardò dentro attentamente come se il fondo del piatto fosse uno specchio. Chissà con quale sostanza misteriosa si erano provati a cancellare lo stemma! E chi aveva voluto cancellarlo e perché!
E don Raimondo, infine, chi era? Un parente?
Forse un antenato anche lui, ma trascorso per alquanti anni e non precocemente imbottigliato.
O che la febbre lo mordeva ancora o che l’infantile fantasia galoppava sfrenata, Mimì si appassionò al piatto. E gli parve, con una commozione strana che lo fece fremere tra le coltri sudate, che il piatto stesso col suo mistero antico si appassionasse a lui.
Mimì crebbe esile e sognatore. Gli piacevano le poesie e i romanzi che rubava alla più giovane delle sorelle di sua madre.

Non si vedeva con i capelli troppo corti ed evitava il più possibile il barbiere, finché suo padre non lo minacciava seriamente di togliergli il cinema, alla domenica.
Il babbo era un poliziotto, un uomo con due mustacchi d’altri tempi e l’occhio spiritato nelle fotografie. Al sabato, portava a casa la tessera per entrare gratis al cinema e, per il pomeriggio di quella giornata, toccava alle zie. Ma la domenica era tutta per Mimì e il suo amico Nino, pallido e imberbe anche lui, con liquidi occhi tondi che sembravano sforare dalle tempie.
Con un’inedita e spietata tonsura, Mimì riguadagnava dunque la sala fumosa dell’Ausonia, o del Corallo o del Tosca. Cinematografi d’una Napoli spensierata e trasparente che, come essi, non esiste più.
Gli piacevano i cartelloni, ci sognava dentro. Che colori densi, che prospettive! Volti enormi dall’espressione grave oppure sorridente sovrastavano paesaggi e altre figure che popolavano sfondi sfumati, onirici.

E poi erano tutti bellissimi, attori, attrici e panorami.
Quando tornava a casa, se felicemente vi si scopriva solo, andava a levare il piatto di don Raimondo dallo stipo, lo appoggiava sul marmo del tavolo e ci si sedeva davanti. Dentro vi proiettava il film che aveva appena visto, mescolandolo via via con altri in sua memoria.
Facendosene infine uno suo proprio, più drammatico o meno triste. Osando credersi il protagonista, o la protagonista, che era uguale.
Poi, a tradimento, venne il tempo del servizio militare.
Non ci voleva andare, non capiva perché dovesse!
Finito tutto, gli studi un po’ o tanto trascinati, le passeggiate che culminavano con il gelato o la cioccolata calda a seconda delle stagioni, il cinema alla domenica con la guancia reclinata sulla spalla palpitante di Nino e le loro mani strette durante le scene più audaci.
Leva di terra! Come la sentenza d’una sepoltura da vivo. Si immaginò lui supino e palate che scendevano dall’alto, larghe, opprimenti e molli come un oscuro sudario.
Quanto pianse nel piatto di don Raimondo! Fin quasi a dar nuova vita allo stemma!
Poi andò, tra i genitori affannosamente lieti e le zie ciarliere ed eccitate se mai fosse venuta l’ora di identificare in qualche altro coscritto un serio pretendente …
Andò, varcò la soglia di una caserma enorme, lontanissima da casa, quasi su un altro pianeta, in un grigiore denso e patendo un gelo che lo attraversava annientandolo e facendogli battere i denti, tremare le mani. Se mai lo avesse afferrato in quel momento, il piatto di don Raimondo si sarebbe infranto al suolo.
Con la rudezza della vita militare, che pure si era preparato ad aspettarsi, conobbe presto – o peggio all’improvviso – il disprezzo e la cattiveria. E quelli non li aveva messi in preventivo. Gli piovvero addosso stupidamente inutili, e feroci. Lo ferirono prima, lo dilaniarono poi.
Si ammalò tanto da meritarsi una licenza. Il medico militare, infatti, o fu pietoso cuore o accorto fariseo.

Ma una volta a casa si sentì dappertutto sperduto tranne che nel suo letto, la faccia contro il muro su cui si consumava, non visto, le unghie.
La sera prima di ripartire, si ritrovò solo. Era sabato, il padre in servizio al commissariato, le donne di casa fuori: chi a far le compere per il pranzo dell’indomani, chi al cinema, beate loro!
E Nino? Lontano anche lui. Leva di mare. A Taranto l’avevano mandato, a “sospirar sui flutti” come gli aveva scritto tempo prima. Quasi a separarli apposta. Quasi che si sapesse di loro.
Mimì si levò dal letto e andò in cucina. Col piatto di don Raimondo davanti si sedette a capotavola. Sentiva il marmo gelido sotto i gomiti come un anticipo delle nordiche brume, anche se nel frattempo era divampata l’estate, o d’una sepoltura.
Pensò al sergente Silverni, il più funesto. Anche perché aveva letto in Mimì la vulnerabilità estrema del diverso.

Pensò a quegli orribili, infiniti istanti nel magazzino deserto quando Silverni ne aveva sprangato la porta.
Si portò i polsi alle tempie, fissò il centro del piatto e cominciò a piangere.
Sentiva ancora i denti della violenza nelle carni e ne provava nausea e dolore.
Si immaginò, con un’acuta vertigine, che suo padre venisse tutto a sapere e gli si rivoltasse contro. O che, e peggio ancora, si suicidasse per il disonore.
E sobbalzò sulla sedia immaginando che un colpo di pistola davvero risuonasse, passando da parte a parte i muri.
Senza accorgersene cominciò a piangere e le lacrime velarono lo stemma. E invece di nasconderlo più ancora, parvero dargli nuovi contorni ed evidenza.
La sedia accanto a lui fu smossa e un diafano volto si specchiò nel pianto di Mimì.
Un volto antico, armoniosamente rotondo. Fronte alta e grandi occhi acuti sotto il cranio imparruccato.

“Don Raimondo!” Bisbigliò Mimì, riconoscendolo senza averlo mai visto prima.
E quello gli sorrise, dal fondo del piatto. Poi la faccia gli si rimpicciolì finché non la contenne tutta lo stemma e svanì.
Letizia, la sorella minore di sua madre, si affacciò sulla soglia della cucina. E lui, Mimì, nemmeno aveva sentito la porta di casa aprirsi. Si volse a guardarla spaventato, immaginandosi il viso di don Raimondo proiettato sul suo, come il fotogramma d’un film sullo schermo.
Ma la ragazza, indicando il recipiente che lui aveva dinanzi, allegramente esclamò: “ Mo’ vediamo se tieni il malocchio!”

E, preso un pentolino dai fornelli lo riempì d’acqua sotto il rubinetto, quindi riversò il liquido nel piatto.
“Che fai!”
Disse Mimì e gli sembrava di veder compiere un sacrilegio: violati le sue lacrime, il piatto, la muta complicità di don Raimondo …
Letizia volteggiò verso la credenza, prese l’oliera.
“E una. E due. E tre …”
Contò sette gocce, lasciandole cadere nell’acqua.
Mimì le fissò, suo malgrado.
Le gocce si fecero sferiche, sette minuscoli globuli dorati, e scesero sul fondo del piatto, circondando lo stemma.
“Gesù!” Invoco Letizia a mezza voce.
“Che significa?” Domandò Mimì.
Ma la ragazza stette muta.
Le gocce ruotarono lentamente intorno allo stemma e divennero a poco a poco scarlatte.
Di sangue vivo, sembrarono, non d’olio.
Poi, sul grido atterrito di Letizia, schizzarono fuori dal piatto in sette lucenti zampilli.
Mimì balzò in piedi urtando il tavolo e l’antico recipiente si rovesciò sul pavimento.
Il fracasso del coccio infranto risuonò lungamente, come perdendosi a poco a poco nello spazio e nel tempo. In avanti e a ritroso.

Ginocchioni, Mimì raccolse i frammenti del piatto mentre Letizia asciugava con uno straccio i mattoni. Appena un po’ d’acqua unta. Di sangue neanche un alone.
Del piatto di don Raimondo restò soltanto il centro con lo stemma, come uno scolorito medaglione.
Con cautela e pazienza, Mimì passò i giorni seguenti a limarne i contorni taglienti e imperfetti e quando fu il momento di ripartire per tornare in caserma, celò quella reliquia in una tasca della divisa. Confidandovi come in un talismano.
Ma non ne ebbe, dopotutto, bisogno.
La prima cosa che apprese, rientrando, fu dell’incidente mortale occorso a Silverni pochi giorni prima. La camionetta su cui si trovava e che era guidata da un soldatino di leva, era uscita di strada, finendo in un campo di grano alto e folto.

Silverni si era tratto fuori dal mezzo ribaltato bestemmiando. Del maldestro autista, invece, soltanto la testa irrorata di sangue e dagli occhi sbarrati dal terrore sporgeva dal finestrino infranto.
Silverni aveva preso a tirargli calci in faccia urlando furibondo.
E così non aveva né udito né visto avanzare su di lui, torreggiante e cieca, la gigantesca mietitrebbia.

Don Raimondo, principe di Sangro, era finalmente libero dal sortilegio del piatto. Soddisfatto della vendetta appena consumata per ricambiare Mimì del suo pur involontario favore, il suo spettro era tornato ad aleggiare placido palazzo avito, la sua antica e bella gloria barocca in via San Domenico Maggiore.

Francesca Carlucci

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