Chicchina e l'ammiraglio

C’era stato un tempo che aveva avuto dodici anni e i capelli lunghi sulle spalle con una frangia che le copriva la faccia sino agli occhi scuri e profondi.
Poiché i suoi genitori erano separati, stava spesso a casa della nonna in cui c’era il salone dal soffitto a botte con la vecchia libreria torreggiante che andava, quasi, da parete a parete e nascondeva un’antica porta.

Quella libreria aveva ante di legno nella parte bassa e di vetro in quella alta. Tra le une e le altre si poteva estrarre un ripiano per appoggiarsi a consultare i tomi, antichi e preziosi, del bisnonno.
Così faceva Chicchina, in lunghi pomeriggi, dopo i compiti di scuola. Dall’immensa finestra alle sue spalle il sole entrava obliquo e vaporoso. Su di lei pendeva alto il lampadario a forma di bizzarra lanterna ma lei, caduta la sera, accendeva un piccolo lume con una pinza per attaccarlo dove si voleva. Un oggetto volgare tra quelle mura ma che diffondeva appena intorno un cerchio di luce dorato, familiare. La sua sagoma breve sembrava quella di una monachina in ginocchio. Una figura orante in tanta quiete.

Poi la nonna la chiamava per la cena e lei fuggiva di là spegnendo il lume.
Finì la scuola a ridosso dell’estate. I genitori di Chicchina divisi e lontani. Di più, remoti l’uno dall’altra e da lei.

La solitudine si fece spessa. C’era il mare, dal mattino sino a sera, con la nonna. Ma lei, Chicchina, o nuotava verso il largo e là si provava persino ad annegare sprofondasi a bocca aperta tra le onde o se ne stava taciturna e fosca sotto l’ombrellone a far parole crociate, le più difficili, e a penna di getto, mica a matita.
A mano a mano che i giorni si opacizzavano, più nitide divenivano le notti di lettura. Le persone ombre, viventi i trapassati.
Sua nonna la esortava coricarsi, ma lei restava a leggere e, sovente, si risvegliava vicino all’alba, la fronte sul braccio, il braccio su una pagina involontariamente gualcita.
Il ventinove giugno ci fu un temporale. Niente spiaggia, nemmeno una passeggiata ai giardini. Il cielo scuro e i gabbiani in fuga verso terra, poi l’infinito acquazzone.
Fece compagnia a sua nonna che aveva tirato fuori il mandolino della sua giovinezza e l’ascoltò suonare coi pensieri altrove. Ma una tarantella scoppiettante, infine, le parve sovrastasse persino gli ultimi tuoni.

A sera, una notte stellata sorse inaspettata da oriente e proiettò su ogni cosa una magia.
Quando la pendola batté mezzanotte, Chicchina leggeva ancora.
Più tardi si addormentò ma si svegliò all’improvviso: le sembrava che fosse tornato il temporale. Aveva sentito un rimbombo e uno scroscio. Ma tanto vicini e violenti da averla fatta sussultare.
Davanti a lei le ante a vetri della libreria erano aperte come prima ma sembrava che un vento impetuoso, dal fondo degli scaffali, le tenesse spalancate.
Lo stesso vento salmastro che le scompigliava all’indietro i capelli e agitava le pagine su cui si era addormentata.
Chicchina, ormai in piedi, si domandò se avesse dovuto aver paura e di che cosa. Pensò di star sognando. Un libro, su quel pensiero, si mosse in fuori dallo scaffale e lei allungò la mano affinché non cadesse.

Pietro Colletta
Storia del Reame di Napoli
Libro Primo
Lesse in lettere d’oro sul dorso di cuoio rossiccio.
Il volume era fradicio d’acqua, alghe e residui di cordame fuoriuscivano dalle pagine giallastre. Ma Chicchina non si spaventò ancora.
Aprì il libro come le valve d’una conchiglia odorosa e un contorno lucente come un riflesso d’onda ne guizzò fuori e balenò nella stanza.
Alla luce del piccolo lume Chicchina vide un uomo pallido che le sorrideva. Ma era un sorriso triste. I suoi capelli erano bruni e mossi, indossava una specie di uniforme da marinaio e un aveva cappio mezzo sfatto intorno al collo.

Somigliava a un personaggio di quei fumetti “da grandi” che lei comprava di nascosto con la paghetta, quando andava a scuola e aveva la scusa di passare dall’edicolante che vendeva anche roba di cancelleria. Il personaggio si chiamava Corto Maltese.
Chissà qual’era il nome, invece, dello spettro che aveva di fronte.
Fu come se quello le leggesse nei pensieri.
“Sono un ammiraglio.” Disse infatti senza nemmeno muovere le labbra. “Della flotta della repubblica Partenopea.”
E quindi sussurrò il suo nome.
“Sei triste perché sei stato ucciso?” Domandò Chicchina indicando la corda. E sempre dubitava di esser desta.
“No.” Fu la risposta. “Sono triste per gli orecchini. Quelli di mia madre, con le perle scaramazze pendenti dai nodi di diamanti sovrastati dalle gocce di smeraldo.”
“Li hai persi?”
“No, li donai a una donna vile e menzognera.”
“C’è scritto in questo libro?” Chiese Chicchina indicando il volume di Colletta.
L’ammiraglio fece un cenno rabbioso e disperato di diniego.
“In nessun libro sono scritte quelle cose!” Esclamò.
“Non ho pace.” Disse ancora. “Li rivoglio. Ho rimpianto più quegli orecchini che la mia stessa vita. Un sacrilegio fu che lei li avesse.”
“Lei, chi?” Domandò Chicchina dal cerchio di luce verso l’ombra sull’orlo della quale lui ristava.
“Emma Hamilton!” Pronunciò il fantasma con tanto affanno che tutto si contorse e tremolò inclinandosi, come fiamma d’una candela a un soffio estremo. E così svanì.
Il mattino dopo, Chicchina scovò un cartoncino color avorio – un biglietto da visita del nonno – e prese dalla cartella di scuola che si era portata per fare i compiti delle vacanze, matite e pastelli colorati.
Era brava a disegnare e poi era come se li avesse visti quegli orecchini meravigliosi.
Con abilità e puntiglio li rifece, li colorò abilmente tanto che parvero risplendere davvero e poi li ritagliò dal cartoncino con le forbicine da cucito della nonna, quelle d’argento, antiche.
A notte, riprese il libro dallo scaffale. Asciutto e persino crocchiante nel dorso rinsecchito.
Cercò le pagine giuste e tra di esse mise gli orecchini come fossero due fiori da conservare.
Quando ripose il volume, le parve di sentire sospirare.

Dieci anni dopo che aveva i capelli cortissimi e certe gonne più corte ancora sopra i collant spessi, colorati di viola o zafferano e gli stivaletti assurdi da cow-boy, Chicchina capitò a Londra per una vacanza studio. Si era appena strepitosamente laureata in lettere ma stava imparando a suonare la chitarra e leggeva a destra e a manca di politica a seconda delle frequentazioni del momento. Aveva stabilito che tutto avesse poco senso e preso le distanze da ogni dolore. Almeno, così le sembrava.
Usciva tutti i pomeriggi. Girava per le strade sino a sera.
La volta che scoppiò un temporale, all’improvviso, lo sferzare della pioggia la sospinse dentro la prima soglia che trovò.
Scuotendosi di dosso le gocce gelate si guardò intorno.
“Excuse me. Sorry.”
Diceva e si accorgeva di rabbrividire.
Era capitata in una botteguccia d’antiquariato. Zeppa all’inverosimile. L’occhio faticava a poggiarsi su un solo oggetto: ogni cosa sovrastava l’altra, quasi con dispetto.
Teiere e salvadanai, ventagli e vasi, arazzi arrotolati, ombrellini aperti. Bottiglie, tazzine, vassoi, fiori finti. Plastica e porcellana, seta e poliestere. Certe stole lanose, qualche abito teatrale con lustrini e piume dai colori sgargianti, disperati. Cappelli di tutte le fogge e tristi parrucche spioventi.
E poi, in un angolo, la vetrinetta con i gioielli. Un vago, confuso luccichio. Disordine anche lì, per non smentire l’idea del bric-à-brac, del rigattiere …
Chicchina si fermò davanti alla vetrinetta. Guardava, su un ripiano, un paio di orecchini.
Con perle scaramazze sotto i nodi di brillanti sormontati da lacrime di smeraldo sfaccettate. Quelli erano stati messi là da soli. Niente si affastellava loro intorno, null’altro ne contrastava lo splendore.
Chicchina se ne stava immobile, a bocca schiusa. Come volesse fare una domanda. Ma non sapendo quale.
Poi, al di là dei cristalli, comparve una sagoma scura.
Chicchina levò il capo e si trovò di fronte una donna senza età. Ma bella come certe figure dei ritratti di George Romney.
Un volto chiaro, biondoargentei capelli, un sorriso leggero che forse nemmeno era un sorriso. E gli occhi, intensi e larghi come il mare.
La donna prese gli orecchini e glieli porse.
“How much?” Domandò Chicchina.
“Nothing!”
La donna indietreggiò. Fu come rientrasse in un fondale senza tinte e profondità.
E fuori non pioveva più.
Non li indossò mai, quei gioielli. Come non trovò più quella bottega. Del resto, non che si fosse mai aspettata di ritrovarla.

Il giorno che tornò a Napoli andò difilato nella chiesetta in cui sapeva che lui era sepolto.
Si era messa un vestito normale, persino un po’ romantico, di seta a piccoli fiori, lungo il giusto. E per la prima volta rimpiangeva il peso, sulle spalle, dei capelli.
Dopo un saluto o una preghiera o entrambi, in un’acquasantiera lasciò scivolare gli orecchini.
E li osservò quietamente svanire.

Francesca Carlucci

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