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Lo specchio di zi' Perina

LO SPECCHIO DI ZI’ PERINA

Zi’ Perina abitava in cima a un palazzo alto e stretto che sembrava non avere spessore. Un’enorme, bislunga trave dipinta che si protendeva a curiosare alle spalle delle costruzioni più basse e più larghe.

L’appartamento era piccolo: tre camerette in fila su un corridoio stretto. Ma sul retro si apriva, dalla cucina, un terrazzino squadrato proteso su una vertigine di tetti, viuzze, orti. Una tavolozza di bianchi, grigi, verdi su cui, qua e là, erompevano le tinte più accese dei panni stesi. E, se ti sporgevi un po’ a destra, scorgevi il fianco possente del Vesuvio a primavera tutto verdeggiante.
Zì’ Perina forse era stata bella o forse no. L’unica fotografia del suo matrimonio con Ninucccio, ritraeva un viso rotondo dall’espressione curiosamente esterrefatta, più da monaca che da sposa.

Tant’è che, come del resto sua sorella, era rimasta presto vedova.
Ricamatrice eccezionale, si era adattata anche a far la sarta in casa. Aveva le sue clienti fisse ma non disdegnava di girare per le botteghe a prendere quelle che lei chiamava le commissioni: orli di gonne e di calzoni, maniche da accorciare o da allungare, generiche – e spesso fantasiose – riparazioni di strappi e bruciature.

Si era nel secondo dopoguerra e, ancora, per molti, non c’era davvero da scialare.
Lavorava nella stanza che lei considerava il salotto di casa sua, col tavolo rotondo al centro e la gloriosa Singer vicino alla finestra, in buona luce.
Una specchiera graziosamente basculante e i cassetti del grande comò zeppi di pezzi di stoffa, come fossero il guardaroba perpetuo di Arlecchino.
A qualche cliente speciale, schiudeva la sua camera da letto, che teneva sempre in una penombra vedovile.
Allora accendeva del lampadario tutte le lampadine nelle trombette di vetro protese a raggiera e spalancava le ante dell’armadio che dentro avevano ciascuna un grande specchio affinché la cliente si ammirasse di spalle e di profilo.
In casa di zi’ Perina, a parte quelle sue mani laboriose, non c’era nulla di prezioso.
Nemmeno le fedi nuziali aveva più, ché le aveva donate alla Madonna quando Saverio, l’unico figlio di sua sorella Titina, era stato sul punto di morire per un’appendicite curata male.
Saverio, già. Bello di malinconica bellezza, di quelle serene armonie che non suggerivano vi fosse anche il conforto dell’intelligenza oltre la fronte liscia, in fondo alla pupilla umile e fissa.
L’impiego sicuro, al catasto, era stato un privilegio dinastico. Ma Saverio era scrupoloso e puntuale, tenace senza angosce e pronto al riso se appena si fidava dell’interlocutore del momento o della situazione, in generale. Se appena, insomma, sentiva di non passar per sciocco o inopportuno.
Da bambino, la casa di zi’ Perina era stato il suo piccolo mondo incantato. Lei gli cuciva i vestiti, concedendosi vezzi inconsueti: certi colletti di pizzo, certi calzoncini sbuffanti. Velluti e rasi. Magari fosse stata una femminuccia! …
Saverio, tranquillo e mai maldestro, aveva accesso a tutto ma non alle forbici e agli aghi e non mai a un cofanetto largo e basso che conteneva un certo specchio antico.
La chiave del cofanetto, piccina e dorata, pendeva, insieme a una medaglietta di stagno della Madonna di Pompei, dal laccio d’oro basso – praticamente ottone – che zi’ Perina portava al collo.
Saverio aveva sentito dire che lo specchio, da toletta, col manico, era d’argento massiccio. Ma la natura dell’oggetto era nulla nei suoi pensieri di bimbo assorto e mite: era il fatto, o la leggenda, che fosse appartenuto a Luisa Sanfelice a fargli provare un reverente timore dinanzi a quella reliquia che la zia custodiva nell’alto comodino accanto al letto.
Accadeva, infatti, che zi’ Perina per prendere un fazzoletto o la corona del rosario, gli lasciasse intravedere la superficie dello scrigno, di legno scuro, triste. Quasi un piccolo feretro la cui vista suscitava più un brivido che un guizzo di curiosità. Del resto, la sventurata padrona dello specchio non era forse morta sul patibolo?
Con che sguardo, Saverio aveva sostenuto il racconto della nonna! E la pietà aveva quasi superato l’orrore quando si era immaginato – aveva visto! – la bella testa cadere come una corolla spiccata dallo stelo.
E quante volte, simile a figura velata, la Sanfelice era passato nei sogni del bambino. Non gli faceva paura né gli ispirava tristezza. Sovente, anzi, quando gli accadeva di cedere al sonno sul vecchio canapé di zi’ Perina, gli era parso che l’aria si smuovesse in un palpito lieve sui suoi capelli, e che fosse la mano del fantasma ad accarezzarlo.
A ventisei anni, Saverio che non si era mai innamorato prima si ritrovò tramortito dal sentimento per una certa Beatrice, figlia d’un avvocato caduto in miseria e cui era perfino stato interdetto il patrocinio per quante concussioni e subornazioni e porcherie aveva fatto e, se appena gli era possibile, ancora faceva.
Titina, a sua volta, tramortì più del figlio: imparentarsi, loro, con un avvocato? Stentava a crederci, a convincersene. E poi, quant’era bella Beatrice!
Più bionda di quel che fosse con qualche artificio chimico e dallo sguardo celestiale e perso ma solo quando si sapeva osservata. Altrimenti, di perso c’era soltanto l’ultimo malcapitato giunto a tiro.
Malgrado non avesse ancora che ventidue anni, Beatrice andava inflazionandosi spietatamente e persino qualche piccola ruga cominciava a insidiare la sua fronte pallida e stretta sotto l’onda dorata della frangetta sbarazzina.
E poi, ormai, era finito il soccorrevole credito, ovunque andassero lei, sua madre, suo padre e persino dovunque mandassero la sciagurata serva.
I giovani di quello che avrebbe dovuto essere il suo ambito sociale, fuggivano da Beatrice come da un morbo mortale. E se non giungevano a questa misura igienica da soli, ecco che erano pronti i padri a indirizzarli. O le madri, e peggio ancora.
Perciò lei e i suoi parenti pitturarono indosso a Saverio i panni del principe azzurro, del cavaliere salvifico, del fesso caduto dal cielo e, un giorno di maggio, lo tradussero nella chiesa di san Francesco di Paola e, praticamente tutti insieme, se lo sposarono.
Ora, dei difetti di Beatrice – che erano tanti e poco commendevoli – il peggiore era l’avidità.
Saverio, abituato ad una vita sobria e schietta si sentì presto travolgere da capricci che, prima leziosi e vaghi, presto divennero demolitrici pretese.
Dal mantenere una sposa, sia pure con velleità di lussi, egli si trovò a mantenere – con lei – i suoceri e la loro domestica.
Infine sfrattati dall’aristocratico piano nobile di via Chiaia, quelli andarono a stabilirsi nel nido nuziale, la solida casa del Vomero in cui Saverio aveva visto spegnersi quietamente gli amati nonni paterni e in cui sua madre, nuora devota, aveva vissuto tutta una vita con dignità e pudore.
Titina, esiliata in un remoto stanzino, tanto se ne intristì da repentinamente svanire .
Saverio e Beatrice andavano a trovare zi’ Perina. Era estate, e si poteva pranzare sul terrazzino, al sentore dolceamaro della pianta di limoni d’Amalfi, orgoglio e vanto della padrona di casa.
Beatrice faceva finta di adattarsi a quella tavola modesta in tutto, dal vasellame alle pietanze schiette e popolane. Ma poi, una volta di sotto, discese le interminabili scale di quel palazzetto svettante, si faceva venire la nausea, il vomito, gli svenimenti …
Saverio, con sgomento e fierezza insieme, se l’immaginava incinta e si impauriva a quelle sceneggiate tanto che Beatrice finiva col trovarlo comico e a sghignazzare soffocandosi nel fazzoletto, finché non rigettava veramente.
Finì tutto e finì presto. Casa mobilia risparmi. Tutto si sgretolò, la desolazione serpeggiò ovunque come una crepa e Beatrice non tardò a rivelarsi del tutto per quel che era.
Titina, oscuramente, dovette presentire la rovina. Forse, persino ne udì gli scricchiolii nella sua testa ovattata dall’oblio.
Una sera, dopo che per tutta la giornata non l’avevano sentita, Saverio osò affacciarsi nello stanzino. Vide che sua madre non si era nemmeno levata dal letto e fu quasi con un pietoso sollievo che constatò che era morta.
Saverio cominciò a salire curvo le scale che lo portavano da zi’ Perina. Curvo e disfatto e con in faccia i segni ora d’un ceffone ora d’un’unghiata.
Piangeva di continuo, sommessamente. Gli altri inquilini lo udivano al di là delle loro porte chiuse, lo riconoscevano appunto dal tirar su col naso e dallo schiocco dei tacchi consumati.
Zi’ Perina lo consolò finché poté con alquante banconote che, ridotte a sigaretta, gli faceva scivolare tra le dita. Poi passò alle monete, poi ancora non restarono che le pietanze riscaldate, tra due piatti sovrapposti stretti nel tovagliolo sgargiante. Praticamente da asporto. Ma lui si sedeva a mangiare da lei e lacrimava nel sugo. Beveva acqua ma era ormai sempre ubriaco di veleno. E ridotto a una larva che quasi gli si poteva vedere attraverso.
Dal ballatoio, zi’ Perina lo guardava scendere finché ne intravedeva la punta delle dita esangui strisciare sul corrimano.
Poi scappava ad affacciarsi e lo vedeva, rimpicciolito dalla distanza, allontanarsi come un’ombra, muro muro.
Quando si arrivò al secondo inverno, una sera fosca di gelo Saverio tornò da zi’ Perina che gli doleva il petto ed era più diafano che mai, senza cappotto, con la vecchia sciarpa che se fosse stata bianca sarebbe sembrata un mezzo sudario …
Ma zi’ Perina, questa volta, benché avesse recitato il rosario, non era quella di sempre.
Lo fronteggiò, piccola e secca, tra il tavolo della cucina e la credenza.
“Mo basta, mo!” Soffiò e tese a Saverio un portafogli nerastro che faticava a chiudersi del tutto.
Saverio strabuzzò gli occhi, quasi gli caddero, anzi, su quel tesoro.
“Ma te ne vai, eh! Servono soltanto perché tu te ne vada. Da quella femmina e da tutti quegli assassini dei sui parenti!”
Infine, travolta dall’essere tanto uscita fuori di sé, zi’ Perina cominciò a tremare mentre le lacrime sgorgavano senza che lei se ne avvedesse. E le lasciava cadere, dense e molli, paurosamente copiose.
Saverio si spaventò. Sulla fronte protesa della zia vide passare tutta la sua vita e, soprattutto, la morte che lo attendeva se non avesse fatto quello che lei gli comandava di fare, come una sacerdotessa biblica nelle incongrue vesti di bizzoca ma però drammaticamente attendibile.
E se ne andò, sparì. Come sfumato nel vento che quella notte agitava il Golfo.
Tra le banconote aveva trovato un ritaglio di giornale con gli orari delle navi in partenza per Genova e l’indirizzo di certi cugini, a Buenos Aires.
Poche settimane dopo, zi’ Perina si ammalò, sopraffatta dalla polmonite che non aveva curato per inzeppare di più il portafogli donato a Saverio.
Non si curò e non si riprese. Mangiava poco, ché poco c’era. Ma pensava a Saverio e lo vedeva rifiorire altrove.
Beatrice andò a pigolare alla sua porta, lei finse di non essere in casa.
Ciò animò la ragazza di un furibondo rancore.
Una volta di più che era rimasta invano dinanzi all’uscio chiuso, tornata a casa, andò a spalancare l’armadio della camera nuziale.
Nell’anta a disposizione di Saverio non vi erano che il vestito indossato il giorno del matrimonio e una vecchia giacchetta bigia. Con cattiveria, per sfregio, lei prese a strattonarli dalle grucce, a percuoterli come colpisse lui.
Ne trasse un suono cupo di legno contro legno, come di nacchere senz’allegria. Poi si fermò, allertata da un pensiero che pure sapeva ridicolo, folle: che mai qualche valore si celasse ancora in quei panni. E cominciò a palparli, disperata.
L’abito non rivelò nulla, ma nella tasca interna della giacchetta, la fodera logora lasciò trapelare facilmente lo spessore d’una chiave.
Beatrice la osservò nel palmo candido della sua mano, corrucciata. Finché, con una smorfia di trionfo, non la riconobbe per una copia di quella della porta di casa di zi’ Perina. Ciò le parve funestamente il segno che confermava i suoi sospetti in merito a un qualche aiuto che la vecchia potesse aver dato al nipote, affinché scomparisse chissà dove.
Fu così che una sera zi’ Perina se trovò davanti Beatrice, in casa sua, bellicosa e stravolta dal bisogno più che dall’abbandono.
Beatrice la gettò sul pavimento e la calpestò oltrepassandola. Come un ciclone turbinò per casa frugando non dove avrebbe potuto nascondersi Saverio, ma dove poteva trovarsi qualche bene.
Non c’era nulla da portar via a parte un pezzo di pane vecchio, un pomodoro e una crosta di formaggio.
Beatrice s’inferocì, strinse gli occhi, ridusse le sopracciglia a un geroglifico maligno e maledettamente si ricordò dello specchio antico.
Oh, se ne aveva sentito parlare se pure non lo aveva mai visto!
Ma non era stato certo il nome e la storia di colei che si diceva ne fosse stata la padrona a impressionarla. Due parole sole, le si erano impresse nella memoria: argento massiccio. Punto e basta.
Tornò di furia indietro e sovrastò la vecchia che ormai giaceva in un’aureola scarlatta. Le assestò una pedata in un fianco per stabilire se fosse morta però non si curò di approfondire. Calò una mano resa adunca dalla furia e strappò il laccio di similoro dal collo inerte di zi’ Perina indifferente al sangue che le macchiò le dita.
In camera da letto tirò via il cassetto del comodino e ne trasse il famoso scrigno. Tanto rabbiosamente lo aprì, che quasi la piccola chiave si spezzò.
Lo spalancò e, su una fodera di velluto blu scuro, vide lo specchio.
Era posto con il dorso in alto. Lo splendore del prezioso metallo era appena velato dal tempo, le spesse volute barocche rifulgevano ancora.
Beatrice l’osservò a bocca aperta. Quanto poteva valere? A peso almeno, se non come oggetto antico …
Così lo sollevò sentendolo, con un fremito di compiacimento, più pesante di quel che aveva creduto.
E lo voltò verso di sé, sfacciatamente, per rimirarsi.
Dapprima credé l’amalgama rovinato dai secoli e reso opaco poiché non vi riconosceva le sue sembianze …
Poi comprese che il volto che scrutava non era il suo e quello uscì, vaporoso e lieve, dallo specchio.
Prese solidità dinanzi a lei e una testa senza corpo la fronteggiò, cupa e terribile..
Beatrice gettò un urlo di raccapriccio e lasciò cadere lo specchio, che s’infranse.
Ma il capo mozzato non scomparve e intorno le fluttuò, minaccioso.
Beatrice corse fuori dalla stanza.
In corridoio guardò a destra e manca, cercando scampo all’orrore.
Tra lei e la porta giaceva a braccia spalancate zi’ Perina, come una croce che sbarrava il passo. Beatrice si gettò dal lato opposto, entrò in cucina e di la si slanciò sul terrazzino …
Qualcosa le s’impigliò ai capelli. Le fronde dell’alberello di limoni d’Amalfi nel largo vaso di terracotta. Oppure un artiglio spettrale …
Beatrice, accecata dal terrore, sormontò la ringhiera e vi stette sospesa come un tremulo stendardo sopra i tetti grigi laggiù e le argentee stradine e gli scampoli verdi degli orti.
Ma aveva le dita ancora viscide del sangue di zi’ Perina e non tenne la presa che un istante.

Francesca Carlucci

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